"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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lunedì 5 settembre 2016

Matteo Renzi: da rottamatore a ricostruttore



 
Era tutto sbagliato. E, di conseguenza, tutto da rifare. I contenuti, la comunicazione, l’agenda delle priorità. La lista degli amici, alcuni di loro diventati una zavorra, e quella dei nemici. E un po’, perfino, l’unica cosa che nella vita davvero non si può modificare: il carattere.

Cambiare tutto. Una metamorfosi lungamente preparata. Non è una decisione che Matteo Renzi ha preso il 24 agosto, quando il suo elicottero è atterrato ad Amatrice poche ore dopo il disastroso terremoto. E neppure nei giorni successivi, nel mezzo della palestra di Ascoli o sotto il tendone di Amatrice, tra uomini in lacrime, volontari, preti, suore, bambini, bare.

Il segno più evidente di quei giorni è che il premier ha smesso di fare battute, in pubblico e in privato, può sembrare una cosa scontata soltanto a chi non lo conosce. Anche il vertice italo-tedesco di Maranello con Angela Merkel è stato meno roboante del previsto. Ma la svolta non è maturata nelle ore del dolore. Il terremoto è una crepa simbolica tra una fase del suo governo e un’altra. Perché l’unica new town in vista nei piani del premier non sarà costruita nei prossimi mesi tra Amatrice e Arquata, ma nel cuore della Roma politica. Al vecchio Renzi, crollato nell’immagine e nel consenso, in crisi di risultati, stretto tra il “rischio zero” degli eventi sismici, che ovviamente non si può pretendere, e la “crescita zero” del Prodotto interno lordo, che rappresenta un risveglio rispetto alle previsioni ben più speranzose del documento di economia e finanza del governo, va sostituito un nuovo Renzi. Il Rottamatore deve lasciare il posto al Ricostruttore. Delle aree terremotate, certo: la prova più severa, l’emergenza più dura su cui promesse e impegni saranno rapidamente giudicati. Ma anche delle faglie che negli ultimi mesi hanno spezzato l’azione di Renzi: la spaccatura del Pd tra maggioranza e minoranza, la divisione nel cuore del tradizionale elettorato di sinistra, la distanza del premier dall’opinione pubblica più periferica, più arrabbiata e che si è sentita esclusa dalla ottimistica narrazione renziana, l’incomunicabilità con sindacati e intellettuali. E il venir meno, insieme al patto del Nazareno, del gioco di sponda con Silvio Berlusconi. E se ricostruire diventa il nuovo imperativo nelle zone del sisma bisogna attendersi, nelle prossime settimane, azioni altamente simboliche. E clamorose.

IN ASCOLTO DEL QUIRINALE - Renzi aveva deciso di mutare pelle già prima dell’estate, addirittura prima del voto amministrativo di giugno, nel mese di maggio, quando ha capito di aver legato la sua carriera politica a una scommessa che non sarebbe riuscito a vincere: il trionfo dei sì al referendum sulla riforma costituzionale di autunno. È stato quando sul suo tavolo i sondaggi hanno cominciato ad affermare con preoccupante puntualità che gli italiani ad avere fiducia in lui sono appena il 26 per cento, contro il 35 che ne ha poca e il 39 che dichiara di averne nessuna. Gli stessi sondaggi collocano da mesi tra i ministri meno apprezzati la madrina della riforma costituzionale, Maria Elena Boschi, agli ultimi posti nelle classifiche di gradimento insieme a Marianna Madia e a Stefania Giannini. Il consenso è cominciato a calare vistosamente alla fine del 2015, in coincidenza con la rivolta degli obbligazionisti di Banca Etruria. E non è più risalito.

Non basta qualche sondaggio, però, a far cambiare idea a Renzi. C’è qualche persuasore più convincente dei tanti addetti alla comunicazione che si affollano nelle stanze della presidenza del Consiglio. Tra loro l’emerito Giorgio Napolitano: è stato lui a spiegare a Renzi che personalizzare il voto referendario, con la minaccia di ritirarsi dalla politica in caso di sconfitta, era una posizione infantile, e in ogni caso perdente. In privato, l’ex capo dello Stato si mostra preoccupato e irritato con il premier. Una strategia sbagliata rischia non solo di far vincere i no al referendum, ma di interrompere il processo di riforma costituzionale cui Napolitano ha dedicato il suo doppio mandato presidenziale. Se i sì perdono non fallisce solo Renzi, ma anche lui.

L’interlocutore più autorevole e ascoltato dal premier in questo momento, però, è l’attuale inquilino del Quirinale. Il prestigio personale di Sergio Mattarella è aumentato nelle ultime settimane, lo si è visto anche dall’accoglienza delle popolazioni terremotate durante i funerali delle vittime, nell’incontro ravvicinato tra il vertice delle istituzioni e chi ha perso tutto. Ma il peso e l’influenza del presidente sono in crescita anche nei palazzi della politica. Non è più stagione né di moral suasion, né di moniti. Dietro Mattarella e gli uomini dello staff presidenziale c’è una cultura politica, una scuola, più cattolico-democratica che democristiana: rispetto delle istituzioni, ascolto della società in tutte le sue pieghe. In una parola: inclusività. Non escludere nessuno dalle decisioni, parlare con tutti. Era un termine dimenticato a Palazzo Chigi, finora. Ma un ex giovane dc come Renzi non ci mette nulla a ripassare la lezione.

CAMBIARE AGENDA - Nelle prossime settimane il nuovo Renzi parlerà più di economia e meno di bicameralismo, un tema che non ha scaldato i cuori come ci si aspettava. Con l’abolizione del Cnel non si mangia, soprattutto in tempi così grigi. L’operazione fiducia per ora non ha funzionato. L’inflazione resta a zero, il vento non spira nelle vele dell’economia e la gente riempie i depositi bancari (nonostante la sfiducia negli istituti di credito). «Matteo non lo ammetterà mai, ma il taglio delle tasse sulla casa di un anno fa è stato un errore», raccontano. Ora serve una legge di stabilità ordinata, sobria, senza fuochi di artificio: non espansiva ma neppure recessiva. Dall’Europa e dalla Germania arriverà il via libera alla flessibilità, non ci saranno procedure di infrazione e l’Italia potrà far salire la soglia del rapporto deficit/pil al 2,3-2,4. Fanno undici miliardi di euro per scongiurare l’aumento dell’Iva e per risorse da impiegare su pensioni, produttività, conferma dei 500 euro per i giovani. E ricostruzione delle zone terremotate e messa in sicurezza del suolo.

GLI AMICI E I NEMICI - Ci sono volti che Renzi non vuole più vedere in giro a fare i pasdaran del governo, a partire dall’infausto Denis Verdini. Alcuni ministri sono da valorizzare, altri da oscurare. Il testimonial del governo nelle settimane del post-terremoto è stato il ministro Graziano Delrio, onnipresente nelle riunioni e in tv. Più defilato Angelino Alfano. Scomparsa dalle cronache Maria Elena Boschi che prima agiva da super-portavoce del governo e ora è invece associata alle riforme costituzionali e in caduta nei sondaggi.

La nomina di Vasco Errani a commissario per la ricostruzione delle zone devastate dal sisma è anche una mano tesa alla minoranza del Pd e a Pier Luigi Bersani, che di Errani è quasi gemello. Ancor più significativa, forse, la riapertura dei tavoli governativi con i sindacati. Incontri tecnici nella prima metà di settembre, poi il 12 le stanze di Palazzo Chigi riapriranno per i vertici tra il governo e le leadership di Cisl, Uil e soprattutto Cgil. Due anni fa, di questi tempi, era in programma l’approvazione del Jobs Act, Renzi ricevette le sigle sindacali per sessanta minuti, dalle otto alle nove del mattino. «Un’ora sola ti vorrei...», ironizzò Susanna Camusso. E un mese dopo il premier, dal palco della Leopolda, restituì il sarcasmo attaccando il sindacato rosso che difendeva l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, «come inserire il gettone nell’iPhone, mettere il rullino nella macchina fotografica digitale». Oggi si va avanti, o si torna indietro. I sindacati si preparano a incassare la manovra finanziaria del governo progettata dal sottosegretario Tommaso Nannicini: due miliardi di euro da investire per i pensionati, duecento milioni da destinare agli statali, l’anticipo di pensione (Ape) che sarà gestito dall’Inps, ma che vedrà coinvolti come sportelli di consulenza patronati e Caaf. Un bel regalo ai corpi intermedi di cui nella fase trionfante Renzi predicava la rottamazione. In cambio, il premier incasserà l’atteggiamento non ostile della Cgil durante la campagna referendaria. Sul merito della riforma, la Cgil è spaccata e non prenderà posizione. E fa paura l’ipotesi di un governo 5 Stelle che con i sindacati non sarebbe più amichevole di Renzi. Così Susanna Camusso torna amica del Pd renziano, o almeno non belligerante.

Ma la lista dei nemici con cui ritrovare il filo del dialogo non si limita alla leader di Corso d’Italia. C’è un pezzo di sinistra esterno al Pd, ma che non si rassegna all’impossibilità dell’alleanza elettorale con il partito di Renzi: dall’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia al sindaco di Cagliari Massimo Zedda, tentati a dire sì al referendum se il governo si impegnerà a cambiare la legge elettorale Italicum. Ci sono i padri nobili del centrosinistra che finora non si sono schierati, a partire dal corteggiatissimo Romano Prodi. Ci sono i governatori del Pd tenuti a distanza da Renzi. Il laziale Nicola Zingaretti, la sua regione è pesantemente coinvolta nel sisma, si è fatto vedere a seguito del premier, ha caldeggiato l’operazione Errani, e il pugliese Michele Emiliano, da recuperare in vista della battaglia referendaria. E poi ci sono i potenziali interlocutori tra i partiti avversari. L’elenco dei nomi da richiamare dopo le vacanze, mettendo da parte polemiche furibonde e bandiere contrapposte, comprende a sorpresa il sindaco di Napoli Luigi De Magistris: in campagna elettorale sventolava la parola d’ordine della «de-renzizzazione», di Napoli e poi dell’Italia, ora vorrebbe tornare a parlare con il premier alla pari, a condizione di eliminare dalla partita di Bagnoli il commissario governativo Salvo Nastasi. E la mossa potrebbe riuscire. La lista dei carissimi nemici con cui Renzi cerca di riallacciare rapporti prosegue con i due governatori della Lega Roberto Maroni e Luca Zaia. In comune hanno il pragmatismo, il profilo istituzionale, l’insofferenza per le uscite del loro leader Matteo Salvini. «Se Renzi imposta il referendum come un plebiscito su se stesso il Veneto voterà contro di lui. Se si resterà sul merito il Veneto voterà per semplificare la politica romana», ripete Zaia. Motivo in più per Renzi per provare a ricucire. La visita del premier a Genova dal senatore-architetto Renzo Piano, amico personale di Beppe Grillo, è un amo lanciato presso l’elettorato di M5S. Prima o poi toccherà chiamare anche Virginia Raggi e Chiara Appendino.

L’ultimo numero in elenco è casa Arcore. Con Silvio Berlusconi i rapporti personali sono formalmente interrotti da mesi. Ma gli emissari renziani e berlusconiani non hanno mai smesso di parlarsi. Non tanto per questioni politiche, ma perché mai come in questo momento l’Impero berlusconiano vacilla dopo lo schiaffone ricevuto da Vincent Bolloré e dal dietrofront di Vivendi nell’accordo con Mediaset. I contatti tra il Biscione e il governo si sono intensificati in estate. Patti che si rompono, patti che si ricompongono. Il convegno di metà settembre organizzato da Stefano Parisi non è l’anticipo di un nuovo patto del Nazareno, come sognano molti berlusconiani e qualche renziano. Però è un passo verso la direzione opposta alla linea di Renato Brunetta, martellante avversario di Renzi. La prima pietra per mettere su la new town del centro-destra, a debita distanza dalle formazioni antiche. In apparenza l’obiettivo è la rifondazione dello schieramento moderato, per impedire che la prossima sfida elettorale sia tutta tra Pd e Movimento 5 Stelle. Ma è un’idea che presuppone un sistema politico stabile, solido, poggiato su alcuni fondamenti incrollabili, come fu il fattore K, l’anticomunismo, nella Prima Repubblica, e la divisione berlusconismo-antiberlusconismo nella Seconda. Mentre lo scenario è frammentato e instabile. E ancora di più potrebbe diventarlo nelle prossime settimane. L’operazione avviata oggi da Parisi potrebbe portare Forza Italia o quello che sarà ad allearsi con Renzi in un futuro prossimo, soprattutto se dovesse cambiare la legge elettorale.

IL NUOVO ITALICUM - Il vecchio Renzi, il rottamatore, l’uomo solo al comando che aveva conquistato (do you remember?) il 40 per cento alle elezioni europee del 2014, si era fatto una legge elettorale su misura, l’Italicum, «tutta Europa ce la invidia», ripeteva il premier. Il nuovo Renzi, il Ricostruttore, ha bisogno di una nuova legge elettorale che, Mattarella docet, non spacchi ma unisca, non escluda ma includa, non contrapponga due squadroni in armi come nella disfida di Barletta (e con il rischio che vinca lo sfidante: M5S) ma favorisca le coalizioni, le alleanze, prima durante o dopo il voto, con chi ci sta. Renzi, sia pure a malincuore, si prepara alla bocciatura dell’Italicum da parte della Corte costituzionale a ottobre, prima del voto referendario. Tutti i segnali portano in quella direzione, il Palazzo si prepara. Virtù del leader è trasformare le sconfitte in opportunità, la dichiarazione di incostituzionalità dell’Italicum non sarebbe certo notizia da festeggiare per il premier ma consentirebbe a Renzi di cambiare gioco senza dover spiegare in pubblico di aver sbagliato. La soluzione alternativa, in caso di Italicum da rifare, è già pronta: tornare al Mattarellum, la legge elettorale che ha funzionato tra il 1993 e il 2006, con i suoi collegi uninominali e la spinta ad aggregarsi sui candidati più competitivi. In più, e non è certo un male, porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Anche perché con l’Italicum in vigore il Quirinale sarebbe privato di fatto dei suoi due poteri principali: la scelta del nome cui affidare l’incarico di formare il governo e lo scioglimento anticipato del Parlamento in caso di impasse politico. È lecito immaginare che nessun presidente della Repubblica possa accettare a cuor leggero di essere neutralizzato senza neppure una modifica formale della Costituzione. Neppure il meno interventista come Mattarella.

ROTTAMARE MATTEO - Spersonalizzare per Renzi equivale a una mutazione genetica. Tutta la sua ascesa da leader è stata all’insegna della superpersonalizzazione, la comunicazione del governo ruota su di lui. Oggi il premier è chiamato a fare un passo di lato: meno risposte su twitter e più ascolto delle domande del Paese. Nell’elenco degli errori inconfessabili c’è anche la nomina degli attuali vertici Rai. Al direttore generale Antonio Campo Dall’Orto viene imputata una mancanza di sensibilità politica, dimostrata in ogni passaggio importante, e una lentezza nell’innovazione del prodotto. Nei piani di Renzi la Rai doveva essere la vetrina della nuova Italia governata da lui, invece continua a essere associata a sprechi, poltrone, lottizzazione. Ma non è solo una questione di comunicazione. Il Pd non è mai diventato il partito di Renzi, nonostante il controllo assoluto dei renziani del quartier generale di largo del Nazareno e dei quadri locali. Basta vedere l’andamento delle feste dell’Unità in tutta Italia, a partire da quella nazionale di Catania, trasformata in un palcoscenico per Massimo D’Alema e per i comitati del No. «Ma per Matteo c’è una cosa ancora più complicata della riforma del Pd», spiega un renziano della primissima ora. «Cambiare messaggio. Ammettere che la sua visione tutta positiva dell’Italia non ha aiutato a rappresentare chi è rimasto indietro». Il terremoto, alla fine di un’estate tragica di incidenti ferroviari e di stragi terroristiche e con l’economia che balla sullo zero virgola, è il simbolo di un cambio di fase. Finora i narratori di Palazzo Chigi hanno raccontato che nel 2014, anno primo dell’era renziana, come nelle favole, si aprì una stagione felice, per l’Italia e per il Principe. Oggi bisogna chiudere il libro delle fiabe e tornare in terra. È la ricucitura con la realtà. Che serve a Renzi. E chissà, forse, anche al Paese.




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