"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

Il presente blog costituisce un almanacco che in origine raccoglie i testi completi dei post pubblicati su: http://www.laquartadimensione.blogspot.com, indicandone gli autori, le fonti e le eventuali pagine web (se disponibili).

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sabato 29 agosto 2015

Il saluto di Ferruccio de Bortoli ai lettori del Corriere della Sera «I giornali devono essere scomodi»

Devo ai lettori del Corriere, una meravigliosa comunità civile, un piccolo rendiconto della mia seconda direzione. Ho avuto l’onore di guidare questa straordinaria redazione per dodici anni complessivi. Un privilegio inestimabile. All’editoriale Corriere della Sera fui assunto, giovanissimo praticante, la prima volta nell’ottobre del ‘73. La proprietà era ancora Crespi. I Rizzoli sarebbero arrivati l’anno dopo. Il Corriere era stato il mio sogno giovanile, è diventato la mia casa, la mia famiglia. Il rapporto di lavoro con gli editori pro tempore si conclude oggi, come è ormai noto da nove mesi. Il legame sentimentale con il giornale era e resta indissolubile.

Nell’aprile del 2009, al momento di assumere la seconda direzione, scrissi che il Corriere - lungo il solco della sua tradizione liberaldemocratica - ambiva a rappresentare «l’Italia che ce la fa». Credo che vi sia riuscito perché è stato indipendente, aperto e onesto. Ha svolto il ruolo che compete a un grande organo d’informazione, orgoglioso dei suoi valori e di una storia di ormai 140 anni. Ha dato spazio e rappresentatività a un’Italia seria, laboriosa, proiettata nel futuro e nella modernità. Il Corriere non è stato il portavoce di nessuno, tantomeno dei suoi troppi e litigiosi azionisti. Non ha fatto sconti al potere, nelle sue varie forme, nemmeno a quello giudiziario. Ha giudicato i governi sui fatti, senza amicizie, pregiudizi o secondi fini. E proprio per questo è stato inviso e criticato. Chi scrive ha avuto lunghe vicende giudiziarie con gli avvocati di Berlusconi, con D’Alema e tanti altri. Al nostro storico collaboratore Mario Monti - che ebbe, per fortuna dell’Italia, l’incarico dal presidente Napolitano di guidare il governo - non piacquero, per usare un eufemismo, alcuni nostri editoriali. Come a Prodi, del resto, a suo tempo. Pazienza.

Del giovane caudillo Renzi, che dire? Un maleducato di talento. Il Corriere ha appoggiato le sue riforme economiche, utili al Paese, ma ha diffidato fortemente del suo modo di interpretare il potere. Disprezza le istituzioni e mal sopporta le critiche. Personalmente mi auguro che Mattarella non firmi l’Italicum . Una legge sbagliata. Ad alcuni miei - ormai ex - azionisti sono risultate indigeste talune cronache finanziarie e giudiziarie. A Torino come a Milano. Se ne sono fatti una ragione. Alla Procura di Milano si sono irritati, e non poco, per come abbiamo trattato il caso Bruti-Robledo? Ancora pazienza. L’elenco potrebbe continuare. 

Con il tempo, cari lettori, ho imparato che i giornali devono essere scomodi e temuti per poter svolgere un’utile funzione civile. Scomodi anche quando sono moderati ed equilibrati come il Corriere . La verità è che i bravi giornalisti spesso ne sanno di più di coloro che vorrebbero zittirli. In questo Paese, di modesta cultura delle regole, l’informazione è considerata da gran parte della classe dirigente un male necessario. Uno dei tanti segni di arretratezza. Piaccia o no, le notizie sono notizie. I fatti sono i fatti, anche quando smentiscono le opinioni di chi scrive. E le inchieste sono un dovere civile, oltre che professionale. Perché le democrazie si nutrono di trasparenza e confronto, di attenzione e rispetto. Dove c’è trasparenza c’è riconoscimento del merito, concorrenza e crescita. Nell’opacità si regredisce. Una società democratica non deperisce solo se ha un’opinione pubblica avvertita e responsabile, alla quale - come diceva Luigi Einaudi, collaboratore del Corriere e presidente della Repubblica - devono essere forniti gli ingredienti utili per scegliere. Non solo nelle urne ma nella vita di ogni giorno. Conoscere per deliberare. L’opinione pubblica, architrave di una democrazia evoluta, è composta da cittadini con spirito critico non da sudditi che se le bevono tutte. E le opinioni vanno rispettate. Tutte.

Il giornale si è distinto in questi anni per aver promosso un tavolo costante di confronto fra idee diverse, salvo dire quando era necessario, la propria. Errori ce ne sono stati. E non pochi. La colpa è esclusivamente mia. Un esempio? I giornali dovrebbero tutelare di più le persone coinvolte in fatti di cronaca o inchieste. Non sono oggetti inanimati delle notizie o protagonisti involontari di una fiction . Hanno famiglie e sentimenti. La loro dignità va sempre salvaguardata e l’onore restituito quando è il caso.

Poche cifre, credo significative, sull’andamento in questi anni del sistema Corriere della Sera che ha raggiunto una vastità e complessità, come vedremo, non a tutti nota. Dal quotidiano - nelle sue diciassette edizioni locali, nelle versioni digitale e cartacea, online, e su smartphone - ai supplementi Sette , La Lettura , Corriere Economia , Io Donna , ViviMilano , Corriere Eventi , Corriere Innovazione , Living e Style . In un mercato assai difficile se non drammatico per l’editoria, il sistema Corriere ha realizzato nel 2014 un giro d’affari di poco inferiore ai 300 milioni, con una redditività dell’11%, in crescita rispetto all’anno precedente quando era stata del 9%. E questo nonostante il crollo degli introiti pubblicitari, diminuiti del 40% circa in sei anni. Efficienze e risparmi, negli ultimi due esercizi, sono stati pari a 45 milioni. La redditività della parte stampa è del 7 per cento, di quella digitale del 16. La casa editrice di libri e pubblicazioni collaterali a marchio Corriere è diventata in questi anni una delle principali del mercato italiano. L’anno scorso ha realizzato un fatturato di 30 milioni e un margine, in crescita, di 10.

Il Corriere conserva la sua leadership nella diffusione (carta più digitale) con 421 mila copie nella media del 2014. È quello che ha più lettori nei quotidiani d’informazione generalista. Nelle ultime due rilevazioni Audipress ha superato - e non accadeva da anni - il suo più diretto concorrente, con 2 milioni e 617 mila lettori giornalieri. Corriere.it , che ha rinnovato profondamente la propria offerta (non senza qualche problema tecnologico, che ammettiamo), con la diretta tv dei principali avvenimenti, ha circa 2 milioni e mezzo di utenti unici al giorno, più di 30 milioni di pagine viste. Straordinario il successo dei video: nel solo mese di febbraio gli streaming sul nostro sito sono stati 24 milioni, contro i 16 del nostro diretto concorrente. 

L’editoria digitale del Corriere ha conosciuto una fase di grande sviluppo. Dalle videoinchieste alle docufiction . Sono stati creati blog multiautore di rilevante successo (come la 27esima ora oggi anche radio), prodotte alcune importanti webseries (dalla Mamma Imperfetta al Viaggio di Vera , alla Scelta di Catia , all’ultimo La Resistenza di Norma ). L’intero sistema Corriere è presente su tutti i social network; su Twitter, per esempio, ha più di un milione di followers . Un cenno solo all’attività sociale. La onlus Un Aiuto subito , creata dal Corriere nel ‘97, è intervenuta, dopo tutte le più grandi sciagure, terremoti e inondazioni, a favore delle popolazioni colpite, impiegando i fondi ottenuti grazie alla generosità dei lettori (in totale oltre 40 milioni). Le realizzazioni sono documentate sul nostro sito.

Tutti questi risultati sono stati possibili grazie a una grande redazione, al condirettore Luciano Fontana, ai vicedirettori Antonio Macaluso, Daniele Manca, Venanzio Postiglione, Giangiacomo Schiavi, Barbara Stefanelli. Sono certo che con la nuova direzione il Corriere sarà ancora più autorevole, forte e innovativo. A tutti i colleghi, al direttore generale Alessandro Bompieri e al suo staff, va la mia gratitudine. Ai lettori, molti dei quali in questi giorni non mi hanno fatto mancare i segni della loro vicinanza, un grande e ideale abbraccio.

Ferruccio de Bortoli (fdebortoli2@gmail.com)
(Corriere della Sera - 30 aprile 2015)

giovedì 27 agosto 2015

Berlusconismo e antiberlusconismo: scusi Renzi, ma lei da che parte stava?

Suscita qualche legittima curiosità ciò che ha detto Matteo Renzi all’entusiasta platea di Cl sulle colpe storiche del “berlusconismo e dell’antiberlusconismo che hanno fatto perdere all’Italia vent’anni”. Una frase furba e anche abbastanza ignobile. Come nel carattere del personaggio, perché mette tutto e tutti sullo stesso piano (con lui al piano di sopra). Ma che lo espone ad alcune inevitabili domande sulle sue personali scelte di campo, tenendo conto che, a differenza del calcio, su certi argomenti non è possibile lo zero a zero e neppure mandare la palla in tribuna.
Per esempio, nei giorni del G8 di Genova quando la polizia del governo Berlusconi mandava all’ospedale le persone che sfilavano pacificamente – per non parlare della macelleria messicana nella scuola Diaz –, il cuore del Matteo già grandicello, batteva per i manganelli o per quelli a cui spaccavano la testa?
E nei giorni dell’editto bulgaro quando lesse (se leggeva i giornali) che Biagi, Santoro e Luttazzi erano stati cacciati dalla Rai perché invisi al presidente-padrone, Renzi continuò a giocare con le macchinine o pensò tra sé e sé (perché Verdini non sentisse): però, che schifo?
E se con gli amici del bar di Rignano il discorso cadeva sul conflitto d’interessi del presidente del Consiglio, proprietario di tre tv e controllore del servizio pubblico, la reazione di Renzi qual era? Che palle, non se ne può più?
E delle numerose leggi vergogna, e dei vari lodi Schifani e Alfano poi dichiarati incostituzionali, il giovanotto Renzi cosa pensava esattamente? Che costituivano utili innovazioni di un sistema giudiziario obsoleto? O che era un insopportabile uso del governo e del Parlamento per consentire all’Imputato di farla franca dimostrando che la legge non è affatto uguale per tutti?
Sappiamo invece da che parte stava quando il suo maestro Silvio cercò di smantellare a proprio uso la Costituzione. Il discepolo non è da meno.
E quando (andiamo a memoria) nella campagna elettorale del 2006, Berlusconi attaccò frontalmente Prodi dicendo che non poteva credere che “ci fossero in giro così tanti coglioni pronti a votare contro i loro interessi”, possibile che il futuro premier stesse dalla parte dei coglioni antiberlusconiani?
E quando all’apice del bunga-bunga, Dario Franceschini chiese agli italiani: “Fareste educare i vostri figli da quest’uomo?”, Renzi cosa rispose: sì, no o forse? Oppure pensava che il suo futuro ministro stesse parlando di Roman Polanski?
Infine (ma potremmo continuare a lungo), quando l’allora presidente Napolitano rifiutò di firmare l’infame decreto del governo Berlusconi che avrebbe vietato l’interruzione dell’alimentazione e idratazione artificiale di Eluana Englaro, Renzi rinunciò a provare vergogna per non contribuire alla paralisi del Paese?
Verrebbe da pensare che un premier cresciuto nella cultura dei Telegatti rappresenti la media di ignoranza (e di smemoratezza) vigente nel resto del Paese. Invece, il suo è puro cinismo. Renzi conosce troppo bene i guasti prodotti dal ventennio berlusconiano ma non gliene frega nulla. O meglio, ne fa un uso personale per azzerare tutto ciò che viene prima di lui e per alimentare la conveniente leggenda dell’“uomo nuovo”, senza scheletri nell’armadio e ignaro delle nefandezze di chi l’ha preceduto. Tutto già visto. Ne sanno qualcosa Furio Colombo e chi scrive che ai tempi dell’Unità “antiberlusconiana” subirono lo stalking della dirigenza Ds e successivamente Pd (da Fassino a Veltroni) che con crescente irritazione ci andavano ripetendo: non si può dire solo no (slogan che fornì anche il titolo a un libretto renziano ante litteram che andrebbe ripescato). Fummo persino sottoposti a una sorta di mini-processo dai senatori diessini guidati da Franco De Benedetti che garbatamente minacciava di toglierci il finanziamento pubblico di cui il giornale si giovava. Rispondemmo: fate pure. Andò a finire che Colombo fu accompagnato alla porta e che un paio d’anni dopo toccò a me. Felix culpa, visto che anche da quella “spinta” nacque il Fatto.
La differenza è che, allora, pur nella fregola di farsi benvolere dal Sultano, quel gruppo dirigente agiva con un minimo di timore e di rispetto verso un elettorato di sinistra che non poteva certo mandare giù l’inciucio con un personaggio che aveva elogiato le “tante buone cose fatte da Mussolini”, che aveva definito l’Italia “un paese di merda” e che della sua affiliazione alla loggia di Gelli diceva: “Essere stato piduista non è titolo di demerito”. Mettendo sullo stesso piano Berlusconi e chi lo ha combattuto per anni in Parlamento, sulle piazze e su alcuni giornali, quel rispetto Renzi lo ha preso a calci. La storia, che lui fa finta di non conoscere, insegna che presto o tardi sarà ricambiato della stessa moneta.

Antonio Padellaro (Il Fatto Quotidiano, 27 agosto 2015)

Così lontano così vicino

 
Tra le immagini che provengono dal satellite attraverso Google maps, Max Serradifalco seleziona quelle che diventeranno le sue personalissime rappresentazioni della Natura e del paesaggio dall’aspetto talvolta geometrico e schematico o più spesso assolutamente informale e astratto.
La differenza sostanziale tra quanto il servizio dell’azienda americana ci consente di osservare e le immagini  del giovane palermitano consiste nello scopo informativo di indirizzo divulgativo e scientifico da parte di Google, e nella ricerca artistica di Serradifalco, che si è rivelata particolarmente stimolante e creativa.
La precedente produzione artistica di Max era rivolta prevalentemente verso la sua grande passione: la fotografia naturalistica, con suggestivi paesaggi ripresi durante i viaggi e le escursioni. Può accadere, però, che al fotografo naturalista non basti più il panorama così come si presenta agli occhi  di un “giovane esploratore” a passeggio, ed è stato a questo punto, non del tutto casualmente, che nel 2011 le temerarie vedute satellitari con il contributo delle conoscenze acquisite come abile grafico, gli hanno fornito qualcosa di nuovo e vitale. Luoghi che si trovano agli antipodi, distanti migliaia di chilometri l’uno dall’altro, sono raggiungibili in un istante senza spostarsi dalla postazione del proprio computer, e forniscono forme inattese, visioni vigorose come un ghiacciaio, scorrevoli come un fiume, esplosive come un vulcano. Perché proprio di elementi oro-idro-geologici si tratta. Ecco la natura della Terra come gli abitatori del nostro pianeta, coinvolti dalle emergenze e dai rischi ambientali, non potranno mai vedere! Inoltre per realizzare le immagini desiderate non è affatto necessaria la fotocamera con tutto il suo tradizionale corredo fotografico.
Le fotografie stampate su carta fotografica e montate su pannelli rigidi, vengono presentate nei formati 70×100 cm. e 100×150 cm. In quanto il grande formato permette più agevolmente di apprezzare lo spazio farsi forma e la materia diventare colore con apparente semplicità ed estrema armonia.
Certamente la web-photography apre prospettive nuove al reportage naturalistico, ed i suoi sviluppi futuri in questo momento hanno ancora dimensioni imprevedibili, ma di sicuro successo.
Le opere di Serradifalco sono state premiate a Los Angeles nel 2012 nell’ambito dell’”International Photography Awards “, mentre a Londra, nel 2013, il reportage è stato finalista del “Wildlife photografer of the year”, prestigioso concorso riservato alla fotografia naturalistica. Anche il pittore Arrigo Musti e il critico Aldo Gerbino hanno apprezzato ed elogiato la nuova tecnica ed i loro testi sono inseriti nel catalogo delle opere di Max che durante lo scorso mese di Marzo sono state esposte alla Galleria Elle Art.
Ad Aprile la mostra dal titolo “Web landscape photography” è stata ospitata all’interno della Libreria Feltrinelli di Palermo. Appena pochi giorni addietro presso la Galleria Pittalà di Bagheria ha avuto luogo la serata-evento “La terra vista dal satellite diventa arte”, durante la quale si potevano ammirare sedici gigantografie realizzate da uno dei più innovativi  tra i fotografi contemporanei.

domenica 23 agosto 2015

Massimo Fini: "Sto con il Mullah Omar, ma non mi converto all'Islam"

Fra le tante email che mi sono arrivate a proposito del necrologio negato dal Corriere al Mullah Omar c’è quella di un lettore, Ettore Fumagalli, che, senza entrare nel merito di quel necrologio, che comunque non condivide, mi chiede se mi sono convertito alla religione islamica (“Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”). Se non sono insomma una specie di Magdi Cristiano Allam al contrario.
Se c’è qualcosa che è lontanissima dal mio modo di vedere il mondo è la cupa religione islamica, come mi sono estranei, anzi odiosi, tutti i monoteismi, da quello della Chiesa fondata da Paolo (Cristo è un’altra cosa, è un simpatico e affascinante borderline, uno che delira, che crede veramente di essere figlio di Dio ma che sulla Croce dubita, umanamente dubita, “Padre, padre, perché mi hai abbandonato?”, in quello che, per me, è il più commovente verso del Vangelo) all’ebraismo pur essendo io di madre ebrea e quindi tecnicamente, secondo le leggi razziali di quella comunità, che io rifiuto, un ebreo. Semmai mi sento più vicino, ma solo culturalmente, all’animismo dei neri che hanno una visione magica e spirituale dell’esistenza e della Natura, o meglio la avevano finché è esistita un’Africa Nera, prima che fosse penetrata dall’islamismo, dai pii missionari a seguito dei colonizzatori europei e infine distrutta, non solo culturalmente, ma socialmente ed economicamente dal modello di sviluppo occidentale (sui barconi dei disperati viaggiano anche ghanesi, ivoriani, senegalesi, cioè gente di Paesi dove non c’è nessuna guerra, ma solo la fame).
Nel Mullah Omar e nei suoi Talebani io non difendo la loro ideologia, difendo il diritto elementare di un popolo, o di parte di esso, ad opporsi all’occupazione dello straniero, comunque motivata. Se neghiamo agli afghani questo diritto allora dobbiamo buttare nel cesso la nostra Resistenza, su cui abbiamo fatto tanta retorica, che durò solo un anno e mezzo ed ebbe il supporto degli Alleati, mentre in Afghanistan va avanti da quattordici anni senza l’aiuto di nessuno (se ci fosse stato, come si è spesso favoleggiato, quello dell’Isi pakistano, almeno un missile terra-aria ai guerriglieri afghani sarebbe arrivato, invece son soli contro tutti, Nato, russi e Iran compreso).
A me pare che nel civilissimo Occidente sia venuta meno ogni forma di ‘pietas’ o di misericordia come direbbe Papa Bergoglio (che Domineiddio l’abbia sempre in gloria). Persino i terribili, esecrabili ed esecratissimi Talebani, dopo aver giustiziato, per ordine di Omar, Naisbullah responsabile di essere stato il Quisling dei sovietici a Kabul, ne riconsegnarono il corpo alla famiglia perché potesse avere un’onorata sepoltura. L’ordine era del Mullah ma Abdul Razak, il comandante talebano entrato a Kabul, lo eseguì a modo suo. E  le modalità furono atroci. Razak prese con sé tre soli uomini (segno che si sentiva sicuro dell’appoggio della popolazione) si recò nel compound dell’Onu dove Naisbullah si era rifugiato col fratello, lo evirò e lo finì con un colpo di pistola. La stessa sorte toccò al fratello. I due corpi, straziati, furono poi appesi ad una garitta, come monito. Ma queste modalità furono un’iniziativa di Razak, disapprovata da Omar che non era un uomo che amava le atrocità gratuite e tantomeno le umiliazioni (il giorno dopo concederà a tutti l’amnistia) come confesserà lo stesso Razak due anni dopo in un’intervista concessa a Kan Behraoz, Taliban commander admits ordering Naish killing, in News 16/2/1998.
Catilina era per lo Stato romano l’equivalente di un Bin Laden di quei tempi, ma il suo corpo, dopo la morte in battaglia, fu restituito agli anziani genitori. E anche a Nerone, pur costretto al suicidio e condannato alla damnatio memoria, non fu negata una tomba. Sulla quale il popolino di Roma, che aveva sempre amato questo imperatore che aveva preso le sue difese contro i senatori latifondisti e fancazzisti, continuò per trent’anni a portare fiori.
Oggi vedo che i civilissimi occidentali gettano in mare il cadavere del nemico senza tante cerimonie o sputano sulla bara di un nazista centenario e ne occultano la sepoltura.
Su Repubblica del 2/8 ho letto due begli articoli di Alberto Manguel ed Emiliano Morreale sulla ‘guerra senza epica e la fine dell’eroe Rambo’. Questo è verissimo per noi occidentali che non combattiamo più con gli uomini ma con le macchine ed è difficile fare di un drone un eroe. Non per i nostri nemici. Tantomeno per il Mullah Omar. Che non ci ha semplicemente messo la faccia (questo è capace di farlo anche Renzi, tanto può sempre rifarsela), ci ha messo il suo corpo, ci ha rimesso un occhio, è stato ferito gravemente quattro volte, ci ha messo il suo coraggio, fisico e morale, la sua tenacia, la sua dignità. (Sia detto di passata: all’inizio il Mullah Omar non era un antioccidentale era semplicemente un a-occidentale, non voleva cioè che i nostri costumi e valori che non condivideva entrassero nel suo Paese e lo travolgessero, come è poi puntualmente avvenuto). Quindi in quella che viene chiamata la ‘guerra asimmetrica’ l’eroe, piaccia o no, è lui. Per questo, nemico che fosse, ho dedicato un necrologio alla sua memoria. “Che Allah ti abbia sempre in gloria, Omar”.

Massimo Fini (Il Fatto Quotidiano, 6 agosto 2015)

Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale

Al di là delle numerose occasioni che papa Francesco offre a tutto il mondo dei cattolici, dei cristiani, dei fedeli di altre religioni ed anche ai non credenti, l'ultima va colta per alcune importanti novità della sua predicazione: è il messaggio da lui inviato al meeting di Comunione e Liberazione il giorno dell'apertura a Rimini, per il tramite del vescovo di quella diocesi.
Francesco siede sul soglio di Pietro ormai da due anni e la sua attività è enormemente aumentata. Vorrei dire il suo lavoro, le sue iniziative, la sua fatica. Eppure non sembra. Viaggia, scrive, parla, prega, incontra e soprattutto pensa e combatte. È un uomo come noi, la sua vecchiaia avanza e sta sfiorando gli ottant'anni, ma sembra miracolato. Forse è la fede ad imprimergli un'energia incommensurabile. Ho scritto più volte che un uomo così la Chiesa non lo vedeva al suo vertice da millesettecento anni. Ma non per sapienza teologica né per scaltrezza politica e neppure per inclinazioni mistiche. Francesco ha dentro di sé un'energia rivoluzionaria e un dono profetico, queste sono le sue eccezionalità.
Qualche settimana fa, nel corso di un lungo colloquio telefonico dopo vari incontri, gli domandai se avesse preso in considerazione l'ipotesi d'un nuovo Concilio, un Vaticano terzo che discutesse e sancisse le novità rivoluzionarie che sta introducendo nella struttura della Chiesa. Mi ha risposto di no aggiungendo che il compito che sta cercando di condurre a termine è il mandato ricevuto dal Vaticano II laddove indica come finalità l'incontro della Chiesa con il mondo moderno. Sono passati cinquant'anni da allora e tre Pontefici si sono susseguiti: Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI senza contare papa Luciani che durò poco più di un mese e papa Giovanni XXIII che di quel Concilio fu il promotore. Alcuni obiettivi previsti dal Vaticano II furono realizzati, ma l'incontro con la modernità no, non è stato affrontato e questo è il compito che Francesco si prefigge. Solleverà, non c'è dubbio, una selva di problemi ma lui ha tutte le qualità e tutta l'energia per portarli a termine. O almeno così sperano quelli che gli sono amici per la tempra, l'umanità e la bontà che gli sono innate.

***

"È una ricerca, quella che dobbiamo intraprendere, che si esprime in domande sul significato della vita e della morte, sull'amore, sul lavoro, sulla giustizia e sulla felicità. Le esperienze più frequenti che si accumulano nell'animo umano provengono dalla gioia d'un nuovo incontro, dalle delusioni, dalla solitudine, dalla compassione per il dolore altrui, dall'insicurezza del futuro, dalla preoccupazione per una persona cara". E più oltre: "Perché dobbiamo soffrire e alla fine morire? Ha ancora un senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi? Che cosa stiamo a fare nel mondo?" E infine: "Il mito di Ulisse ci parla del "nostos algos", la nostalgia, che può provare soddisfazione solo in una realtà infinita".
Il testo del messaggio inviato al meeting di Rimini è molto più lungo e si conclude con il sostegno che proviene dal Dio creatore e misericordioso e dall'amore di Cristo verso gli uomini suoi fratelli, ma il tema che sta al centro di questo documento papale è racchiuso secondo me nelle frasi che ho qui citato. Esse colgono i problemi, le domande, la sofferenza e le speranze che gli uomini si sono posti in tutte le epoche e che oggi più che mai la modernità scatena nei cuori dei giovani e degli anziani, degli uomini e delle donne, dei credenti e dei non credenti. Rispondere a quelle domande realizza l'incontro della Chiesa con la modernità, ci fa sentire tutti simili e, anche se le singole risposte sono differenti, risulterà sempre più chiaro che la radice della nostra specie è comunque la stessa: libertà, dignità, fratellanza. Francesco lo dice esplicitamente nel messaggio ma consentirà ad un amico quale io mi sento di ricordare che quei tre valori, con l'aggiunta dell'eguaglianza che anche Francesco più volte evoca, sono quelli che dominarono il pensiero liberale e illuminista inaugurando l'Europa moderna.
Non a caso nel messaggio si parla perfino di Ulisse, della sua nostalgia del ritorno ai valori tradizionali della famiglia e della patria, ma insieme al suo inestinguibile desiderio di "realtà infinita".
Che io sappia nessun Papa aveva evocato il mito odisseico, l'eroe moderno per eccellenza che Dante, pur collocandolo all'Inferno, eleva alle vette più alte del pensiero: "Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". "Una scintilla di divinità c'è in tutti noi" mi disse il Papa in uno dei nostri incontri. Lui a questo crede: in tutti, di qualunque nazione, etnia, condizione sociale, male e bene, fede o miscredenza, peccato e perdono. La scintilla di divinità c'è in tutti e il Dio in cui Lui crede è unico in tutto il mondo. Un solo Dio che nessuno può sostituire con un Dio proprio da opporre agli altri. Il fondamentalismo è l'errore più terribile e porta con sé guerre, stragi, terrore.
La Chiesa predica da duemila anni la fede e l'amore del prossimo e una larga parte di essa mise in pratica quei valori. Ma contemporaneamente quella stessa Chiesa patrocinò guerre, stragi, inquisizioni, crociate, in nome del proprio Dio contro quello degli altri. E quando cessò di far questo, continuò a praticare in varie forme e misura il potere temporale. Contro il potere temporale, questa è la battaglia che Francesco sta conducendo e che incontra opposizioni numerose e potenti dentro la Chiesa. E questo è anche il significato del pensiero moderno che divide la politica dalla religione. Rappresentano entrambe il bene comune, la politica quello del benessere, la religione quello dell'anima. Ho detto più volte a papa Francesco nei nostri incontri che Lui concepisce una libera Chiesa in un libero Stato, esattamente come diceva il conte Camillo Benso di Cavour. Benso e Bergoglio uniti insieme: per un liberale come me non ci potrebbe essere un sodalizio ideale migliore di questo. E chi l'avrebbe mai detto: un miscredente e un gesuita che prende il nome di Francesco d'Assisi? La vita è faticosa, ma a volte ti dà anche soddisfazioni e felicità e per me questo è un caso felice.

***

C'è stata finora una sola voce della sinistra che ha chiarito e difeso il segretario della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Nunzio Galantino, indicato come traditore del nostro Paese e perfino della Chiesa da gran parte della forze politiche ed è lui che voglio citare per introdurre un tema che coinvolge ancora una volta, sia pure indirettamente, papa Francesco e la politica. Si tratta di Enrico Rossi, governatore della Toscana e comunista come lui ama definirsi nell'intervista rilasciata ieri a Repubblica . "Basta leggere la "lectio" di Monsignor Galantino su De Gasperi per capire che non ce l'ha affatto con la politica ma con il politichese ridotto alla ricerca del consenso e del marketing. Proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, Galantino l'ha invitata a ritrovare una forte dimensione ideale ed etica. È una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo e ad una parte politica. La destra ha risposto in modo sguaiato ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione, la politica non ha più una propensione ideale e pensa solo a difendere se stessa. Se la sinistra italiana non si misurerà con questo tema proprio nel senso indicato dalla Chiesa di papa Francesco e di Galantino, è destinata a somigliare sempre più alla destra e quindi a scomparire".
Ho letto anch'io nella sua integralità la lectio di Galantino su De Gasperi e vi ho trovato una visione sociale e politica che va molto al di là del personaggio, certamente rilevante, che guidò la Dc e la politica italiana dal 1945 al '54, nel periodo che vide la ricostruzione del Paese dalle macerie lasciate dalla guerra. Quella visione degasperiana è una democrazia governante sulla base di un'alleanza tra la classe operaia e il ceto medio; un obiettivo la cui realizzazione costò a De Gasperi "come una traversata del deserto", dice Galantino; alla fine De Gasperi riuscì a trasformare l'Italia da un Paese sconfitto in una repubblica democratica che puntò su un'Europa unita, insieme alla Germania di Adenauer e alla Francia della sinistra e degli intellettuali. Naturalmente Galantino ricorda il De Gasperi della legge "maggioritaria" del 1952 ma soprattutto il suo scontro con papa Pio XII, che per le elezioni del 1953 puntava su un'alleanza della Dc con i fascisti del Msi e con i monarchici. De Gasperi rifiutò e il Papa affidò alla rivista Civiltà cattolica il compito di stroncarlo partendo dalla notizia che il Papa non condivideva la linea politica degasperiana e ritirava il suo appoggio alla Dc.
È contro quel tipo di Chiesa pacelliana e temporalistica che ancora esiste e combatte duramente contro Francesco per la propria sopravvivenza, che Galantino ricorda i passaggi fondamentali della politica di De Gasperi e chiama in campo personaggi più recenti, cattolici che sia pur nelle mutate condizioni politiche hanno proseguito quella visione del bene comune cattolico-liberale e cattolico-democratica. Cita Pietro Scoppola, un anti-pacelliano molto acuto; cita Romano Prodi che un anno fa a Trento disse che "la risposta ai problemi del Paese non va cercata in un solo individuo ma nella forza delle idee". Cita addirittura Rosmini che un secolo prima e in tutt'altra situazione storica delineò una Chiesa che fu respinta e scomunicata dal Vaticano di allora. E ancora il De Gasperi del congresso Dc del 1954, quando disse che "il credente opera come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione, e impegna se stesso, la sua classe, il suo partito ma non la Chiesa". Naturalmente Pio XII non fu d'accordo e lo disse pubblicamente. Ad un certo punto improvvisamente nel documento che stiamo esaminando l'autore cita un pensiero di Pascal che è sorprendente; due righe che dicono cosi: "Gesù Cristo senza ricchezze e nessuna ostentazione esterna di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato, ma è stato umile, paziente, santo di Dio, terribile per i demoni, senza alcun peccato ".
Dico sorprendente perché Pascal, citato senza commenti da Galantino, descrive Gesù non come un Dio ma come un uomo, "santo di Dio, ma terribile con i demoni e senza peccato ". Un uomo con qualità ammirevoli proprio perché uomo. Così lo concepiscono i non credenti che proprio perché uomo lo ammirano. Così lo considera ormai gran parte dell'Occidente moderno e secolarizzato. Fa parte di quell'incontro con la modernità che Francesco si propone di realizzare. Ed ora il finale di Galantino: "De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella società contemporanea la politica deve ispirarsi a valori universali, a cominciare dalla carità. La politica non è quella che vediamo oggi, forze che disputano all'interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. Noi vescovi italiani dobbiamo pensare al destino del nostro Paese a cui siamo non solo fedeli ma servitori". L'atroieri, parlando brevemente al meeting di Rimini, Galantino ha concluso dicendo: "Non va bene la politica guidata da interessi e fini immediati, etichettati spesso dalla ricerca dell'utile e meno da un progetto consapevole. Ma anche la Chiesa è destinata a rinnovarsi ".
Caro papa Francesco, ti faccio gli auguri più affettuosi e mi permetto di abbracciarti. Hai ancora lunga strada da percorrere ma credo e spero che arriverai fino in fondo.

Eugenio Scalfari (La Repubblica - 23 agosto 2015) 

 

sabato 22 agosto 2015

Mafia, si cambia verso: cacciato Ultimo, onore al capoclan e bavaglio a Mafia Capitale



Ci sono segnali che contano più di un trattato di sociologia. Ci sono messaggi che, messi assieme come le tessere di un puzzle, descrivono il Paese meglio di qualsiasi studio storico-politico. In queste settimane ne abbiamo colti tanti. L’immagine dei vigili urbani che scortano la carrozza funebre di Vittorio Casamonica, identica a quella utilizzata per le esequie di Lucky Luciano, si rivolge, per esempio, al mondo di sotto. Comunica agli altri boss che “Roma è loro” perché nella Capitale ci si può ancora mettere d’accordo con lo Stato e le altre istituzioni. Dice alle mafie: noi siamo qui e ci resteremo sempre, nonostante le inchieste e la memoria da moscerino di tanti politici, di molti giornali e di troppe tv.
La destituzione dalle funzioni operative di coordinamento tra i vari nuclei del Noe del colonnello Sergio De Caprio, parla invece agli investigatori. Spiega semplicemente a tutti che non farai carriera se arresti Luigi Bisignani, scopri i conti del tesoriere leghista Francesco Belsito, rompi le uova nel paniere a Finmeccanica e sveli le tangenti rosse della Cpl Concordia. Chiarisce che ti faranno saltare pure se sei il Capitano Ultimo, se hai catturato Totò Riina e ora stai facendo solo il tuo dovere. Anche perché non sta bene intercettare per caso il numero due della Guardia di Finanza mentre parla con il premier Matteo Renzi, o va a cena con il sindaco di Firenze Dario Nardella conversando amabilmente di presunti ricatti al presidente Giorgio Napolitano.
La decisione del direttore dell’Isola del Cinema, Giorgio Ginori, di vietare al Fatto Quotidiano la sua festa a Roma, guarda poi – anzi si mostra – alle nomenklature di partito. Dire “niente Festa se recitate le stra-pubbliche trascrizioni di Mafia Capitale” fa sapere che si può stare tranquilli. Nel Belpaese c’è ancora un sacco di gente che pagherebbe per servire. In autunno quando quasi tutto il Parlamento (con complice sottovalutazione da parte della magistratura) voterà una nuova legge bavaglio per limitare, con la scusa della privacy, la pubblicazione di intercettazioni sgradite al Potere, da frotte di sedicenti intellettuali gli applausi arriveranno a scrosci.
Infine, c’è la scelta del governatore della Campania, Vincenzo De Luca. C’è la sua decisione, avallata da Matteo Renzi, di correre alle elezioni appoggiato da una lista ispirata dagli uomini Nicola Cosentino, il forzista detenuto in attesa di giudizio per fatti di camorra. Quell’alleanza parla ai cittadini. Dice che davvero l’Italia #cambiaverso. Perché cammina veloce a passi da gambero. Torna ai Settanta e Ottanta quando nella Dc c’era posto per uomini da rispettare come Mino Martinazzoli o Carlo Rognoni e per i voti e i volti sporchi di Salvo Lima e Vito Ciancimino. Racconta come oggi per vincere si faccia di nuovo finta di non sapere che la mafia è mafia solo se ha rapporti con la politica. Perché se non li ha è solo “normale” gangsterismo. E sarebbe già stata sconfitta da un pezzo.
Con una differenza però. La linea della Palma, di cui scriveva tanti anni fa Leonardo Sciascia, ha superato Roma e Firenze. E viaggia veloce verso le Alpi. Diventa quotidiana normalità non solo per la politica. Anche per milioni di italiani. Così, mentre si ascoltano le Autorità giustificarsi per mancata prevenzione sulle esequie solenni per Vittorio Casamonica dicendo che in fondo quello era un boss di secondo piano, vale la pena di prepararsi al futuro funerale di Riina. Guardato il puzzle nel suo insieme, quando verrà il tempo, è giusto che sia di Stato.




Edoardo Pellegrini: "Romanziere autonomo" autore di "Angeli o Angeli" e "Percorsi e incontri"



Credo che sarà capitato anche a tanti altri palermitani di avere incrociato in via Ruggiero Settimo, all’angolo di via Belmonte, Edoardo Pellegrini. Una persona gradevole che con molto garbo intrattiene o almeno cerca di intrattenere  occasionali passanti, prima per stimolarne reazioni su argomenti complessi che riesce ad esporre rapidamente, poi, se gli lasci lo spazio, proponendoti un romanzo autoprodotto. Nel mio incontro, intrigato anche dal personaggio che di certo incuriosisce, ho aderito alla proposta acquistando copia del suo libro.

Dopo qualche settimana ne ho cominciato la lettura che ho ultimato in brevissimo tempo. “Percorsi e incontri”, edito nel luglio 2012; supportato da una buona scrittura, mi è apparso un romanzo alquanto originale.

Definirne il genere risulta compito arduo, di certo è un’opera coinvolgente, per nulla banale, che evidenzia una veemente vena creativa dell’autore. L’estrosità dialettica di Pellegrini corrisponde alla sua voglia di comunicare. Del resto l’invito al lettore di interloquire in merito al suo scritto ne è testimonianza. Al riguardo, nel sito lo stesso autore si propone, in modo inconsueto, per l’invio gratuito della sua opera prima  “Angeli o Angeli” pubblicata nel 2008, ricezione verificata e avuta a strettissimo giro di email.

Dopo alcune settimane, ne ho iniziato la lettura ed ho subito riscontrato lo stile sobrio e scorrevole che caratterizzava già “Percorsi e incontri”. Stesso metodo di scrittura e stessa efficacia comunicativa mi hanno fatto attendere con ansia l’immancabile colpo di scena che puntualmente anche in questo caso arriva e che costituisce poi centralità della vera storia,

Anche qui la prima parte del romanzo risulterebbe apparentemente strana e leggera, ma rimane pienamente coerente e significativa premessa per l’intero racconto.

Nel leggere “Angeli o Angeli” il pensiero porta subito a Nanni Moretti ed al suo film “Habemus Papam” del 2011. Però, anche se è comune l’idea dell’aspetto umano dei personaggi principali nelle storie, lo svolgimento dei due racconti si sviluppa su percorsi completamente diversi.

Non saprei dire quale fra i due libri di Edoardo Pellegrini  possa definirsi il migliore, di certo entrambi hanno uno specifico stile, un loro spessore e un’originalità che li accomuna.

Per quanto superfluo posso ben dire che risulterebbero entrambi meritevoli di maggiore visibilità e di una più ampia platea. Per i contenuti e le trame si omette ogni anticipazione per mantenere intatta la curiosità del lettore.

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