"Dopo gli anni ovattati dell'infanzia e quelli spensierati dello studio ci si immerge nella catena lavorativa che, al di là di qualunque gratificazione, assorbe e lascia poco tempo ... e poi finalmente arriva la tua quarta dimensione ... e ritrovi quella serenità smarrita."

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lunedì 6 aprile 2009

AAA Cercasi poltrona per trombato - Migliaia di cariche nelle società pubbliche per sistemare gli «ex»

L'arzillo polentone Ernesto Cravos, classe 1914, si è gagliardamente lanciato col paracadute, nel cielo sopra il Piave, a 90 anni passati: «Mi preoccupava un po' solo un piede malandato». L'attore Philippe Leroy, reduce della guerra d'Indocina, si è buttato a 75 atterrando con un inchino e un baciamano galante alle signore. E un gruppo di pazzi guidato dalla signora Karina Willerup ha battuto ogni primato allacciando in un girotondo aereo sotto il sole di Bangkok, mano nella mano, 357 paracadutisti. Ma se ne facciano tutti una ragione: nessuno atterra col paracadute come i politici italiani. Disse un giorno Giuliano Ferrara dopo una sconfitta, per il gusto dello sberleffo: «La caduta è il momento magico della politica, quello in cui essa ti si rivela con le sue maschere, le sue debolezze, le sue vanità. E in cui riassapori il piacere di gironzolare per Roma. E bellissima, la caduta». Sarà. Ma la grande maggioranza dei nostri deputati, senatori, sindaci, governatori, assessori regionali, ci fa una malattia, a cadere. C'è chi reagisce sventagliando insulti, come Vittorio Sgarbi dopo esser stato trombato dagli elettori veneti nel '96: «Sono dei deficienti. Egoisti. Stronzi. Destrorsi. Unti. Razzisti. Evasori. Hanno scelto la Lega? Complimenti. Risultato: si ritrovano a essere governati dai meridionali democristiani e dai comunisti. (...) Voglio fare un'Antilega al Sud, incitando i meridionali a non comprare più prodotti veneti. Questi qui ormai coltivano il razzismo puro. Questa gente non è stupida. È peggio: ignorante e plebea. Il concetto di fondo è: questi elettori sono tutti delle teste di cazzo». La maggior parte dei trombati, però, si accascia distrutta sul divano con gli occhi fissi al soffitto: oddio, e adesso? L'unica che un giorno ha avuto il coraggio di confidarlo è stata Emma Bonino, dopo la botta alle Politiche del 2001 in cui s'era illusa di ripetere il trionfo delle Europee: «Mi sento come un limone spremuto. Non ho fame, non ho sete, non ho sonno. Mi sento una disadattata in questo Paese. Dico e credo in cose aliene rispetto alla cultura generale dell'Italia. L'impegno civile, la passione per la nobiltà della politica... Ma cosa pensa la gente? Forse ho parlato arabo. Marco Pannella ha una tigna di reazione diversa... Io invece sono un limone spremuto, adesso ho solo bisogno di curarmi: perdo i capelli, mi ballano i denti, soffro di fotofobia. Porto gli occhiali neri, non sopporto più la luce, non riesco più a mangiare. Ho ripreso a mangiare minestrina, ricotta... ma non mi va giù niente, sono sotto anestesia». Niente paura, però. Se come obiettivo non hai quello di ottenere spazi per portare avanti le tue idee ma avere piuttosto una bella busta paga, una segreteria, un'autoblu, una piccola corte di potere, il Palazzo non ti molla mai. E se la poltrona di assessore e quella di parlamentare e quella di consigliere regionale hanno fatalmente una scadenza, la tessera di fedeltà a un partito (o la disinvolta disponibilità a cambiarlo in corsa) è un contratto a tempo indeterminato. Più sicuro di un posto in banca. Intoccabile e millenario come il Dente di Buddha a Kandi. Basta essere di bocca buona e accettare tutto. Sei un chimico? Eccoti la presidenza di un Istituto letterario. Sei un letterato? Eccoti nel consiglio d'amministrazione d'un ente idraulico. Sei una soubrette? Eccoti ai vertici di un organismo atomico. Sei un elettricista? Eccoti all'Enea. Come successe a Claudio Regis. Un tizio di Biella che in gioventù aveva fatto il rappresentante dell'Ampex e gironzolava nei dintorni di Telebiella, famosa per essere stata la prima emittente privata del Paese. Giovanotto sveglio ed elettricista provetto si era guadagnato, per la capacità di risolvere ogni problema, un soprannome divertente: Valvola. Va da sé che, svelto com'era nel cogliere le novità, all'arrivo della Lega aveva subito scoperto una grandissima fede in Alberto da Giussano. Fede che lo aveva portato prima in Consiglio comunale e poi dritto a Palazzo Madama. Dove aveva scritto di suo pugno nel curriculum fornito alla celebre Navicella che raccoglieva le autobiografie dei parlamentari: «Laureato in ingegneria. Imprenditore. Ha studiato presso l'Ecole Polytechnique. Presidente di una società operante nel settore della ricerca aerospaziale. Esperto di relazioni internazionali». Quale Ecole Polytechnique? Quali relazioni internazionali? Mistero. Mancata la riconferma al Senato non si sa bene cosa faccia. Per un po' non solo conserva, in attesa della nomina del successore, il ruolo di responsabile della delegazione italiana alla Nato, ma partecipa a una riunione ad Atene parlando «a nome del presidente del Consiglio della Padania» e diffondendo su carta intestata di Palazzo Madama (sic!) un appello ai parlamentari stranieri in favore della secessione. Quanto basta, insomma, per guadagnare le critiche di tutti e la riconoscenza di Umberto Bossi. E il 3 settembre del 2003, con la benedizione della Lega, l'«ing. Claudio Regis» viene nominato da Letizia Moratti, con tanto di stipendio e segretaria e prebende varie, nel consiglio d'amministrazione dell'Enea, l'Ente per le nuove tecnologie, l'energia e l'ambiente. Anni d'oro. Uomo giusto al posto giusto, campeggia nel sito internet dell'organismo come «ing. Regis». Firma come «Claudio Regis, ingegnere Enea» articoli dal titolo Idrogeno fonte di energia, realtà o mito sulla rivista on-line «Kosmos». Querela gli ex soci facendo scrivere nell'atto giudiziario, nero su bianco, che lui è l'«ing. Regis» nonché il «consigliere del Premio Nobel Rubbia». Viene fatto da Silvio Berlusconi vicecommissario con la conferma del titolo addirittura nel decreto di nomina: «ing. Regis». Finché, dopo che aveva liquidato Rubbia come un somaro («Nessuno mette in discussione le sue competenze sulle particelle, ma quando parla di ingegneria è un sonoro incompetente») viene smascherato: macché ingegnere! La famosa Ecole Polytechnique di Friburgo, ammesso che ci sia andato davvero visto che è stata fondata quando lui era già adulto, non è affatto un'università. Vero, ammette lui, ma precisa di considerarsi «comunque un ingegnere a tutti gli effetti». Anzi, guai a chi osa mettere in dubbio la sua preparazione: «Non ho sostenuto alcun esame di abilitazione all'esercizio della professione poiché ho poi scelto la via dell'imprenditoria privata». Minaccia querele. Emette comunicati: «Preciso sempre che non desidero venir chiamato ingegnere ma non posso impedire ad altri di farlo». In ogni caso, ci tiene a far sapere: «Come parlamentare mi sono battuto per l'abolizione del valore legale del titolo di studio». Fatto sta che, dopo esser finito in prima pagina con una storia del genere, in qualunque altro Paese del mondo un finto ingegnere vicecommissario per meriti politici in un ente scientifico come l'Enea verrebbe sbattuto fuori all'istante. Lui no: resterà ancora per 18 interminabili mesi. Inamovibile. Finché il nuovo ministro delle Attività produttive, Pier Luigi Bersani, non ci darà un taglio, ai primi di febbraio del 2007. E chi li schioda, i paracadutati? Chi la tocca quella rete di interessi, relazioni, serbatoi elettorali, rapporti consolidati con le camere di commercio e le associazioni artigiani e le accademie culturali e insomma quel reticolo di conoscenze così preziose il giorno delle elezioni? Prendete, per esempio, Franco Bonferroni. Ai più giovani non dirà nulla, ma un tempo era un potentissimo senatore democristiano, luogotenente di Arnaldo Forlani in Emilia. Si eclissò dopo Tangentopoli, come una parte della classe dirigente dello scudocrociato, vittima fra l'altro d'una «disavventura» singolare. In un impeto di generosità aveva regalato un giorno al vescovo di Reggio Emilia, Paolo Gibertini, una fiammante Fiat Croma, avuta a sua volta in dono dall'imprenditore Costantino Trabucchi. Il magistrato, sospettando fosse una tangente, l'aveva mandato a processo. Assolto. Sia lui sia Trabucchi avevano concordato: «Nella caldissima estate del 1991 incontrammo il vescovo su una vecchia Uno e noi, che viaggiavamo su una Mercedes Coupé, decidemmo assieme di donargli la Croma». Uomini pii. Evidentemente male interpretati anche dal vescovo, che aveva restituito subito le chiavi della macchina, protestandosi in buona fede. L'incomprensione non lasciò però alcuna traccia nei rapporti fra il nostro e la Chiesa. Tanto che nel settembre del 2006, al matrimonio di Marcello Bonferroni, a tagliare la torta col ca- ro Franco c'erano il massimo esponente dei vescovi Camillo Ruini, il braccio destro del massimo esponente del centrosinistra Angelo Rovati (l'amico Prodi non ce l'aveva proprio fatta a venire) e il massimo esponente del centrodestra Silvio Berlusconi. Prova provata che, al di là delle cariche ufficiali, c'è in politica un peso specifico che spesso è personale. Tanto che 15 anni dopo essere stato sottosegretario all'Industria nell'ultimo governo Andreotti, il bravo Bonferroni ha avuto in dono nel luglio del 2005 una piccola poltrona in un'impresa pubblica. Nel consiglio di amministrazione della Finmeccanica. E Antonio La Pergola ve lo ricordate? Presidente della Corte costituzionale, ministro dei governi di Ciriaco De Mita e Giovanni Goria, parlamentare europeo socialista, dotato di capelli miracolosamente neri come la pece a dispetto del passare degli anni, fu uno dei tre saggi che nel '94 venne incaricato da Berlusconi, fresco conquistatore di Palazzo Chigi, di studiare una via d'uscita dal conflitto d'interesse. E lì, avendo già l'autoblu perenne e un paio di belle pensioni, avrebbe potuto chiudere. Ma s'annoiava. Così nel 2006, a 75 anni suonati, lo fecero atterrare alla presidenza del Poligrafico dello Stato. Accettata, s'intende, con lo stesso spirito di servizio che spinse Giuseppe Garibaldi a rispondere da Bezzecca: «Obbedisco». L'ex ministro dei Trasporti dicì Giancarlo Tesini, ormai quasi ottantenne, ha così accettato la presidenza dell'Agenzia nazionale per la logistica: «Obbedisco». Roberto Radice, ministro dei Lavori pubblici nel primo governo Berlusconi, ex parlamentare forzista e candidato trombato alla poltrona di sindaco di Monza, ha accettato la presidenza della Consip, la società del Tesoro incaricata di fare gli acquisti per la pubblica amministrazione: «Obbedisco». E così ha risposto Maretta Scoca (già deputata berlusconiana e poi casiniana e poi mastelliana e sottosegretaria ai Beni culturali nel governo di Massimo D'Alema e autrice di una proposta di legge per far cantare agli alunni delle elementari l'inno di Mameli prima dell'inizio delle lezioni) accettando prima la nomina nel Consiglio di presidenza della Corte dei Conti e poi quella di consigliere della Consip: «Obbedisco». E così l'ex sindaco di Formia, Clemente Carta, lui pure transfuga verso lidi mastelliani prima di tornare all'ovile casiniano, ritorno benedetto dall'offerta di uno strapuntino nel consiglio di amministrazione delle Ferrovie: «Obbedisco». E via così. A centinaia e centinaia. Con qualche caso particolarmente spassoso. Come quello del commissario straordinario nominato nel 2006 dal governatore calabrese Agazio Loiero alla camera di commercio di Cosenza, Pietro «Pierino» Rende. Un settantenne, ai bei tempi tre volte deputato della Dc, che della sua stagione d'oro ha conservato un eloquio che ricorda i ghirigori sul marzapane di una volta, con appelli a tutti gli imprenditori «considerati non particelle elementari di solitudine ma elementi essenziali di comunione produttiva». Poffarbacco! Doveva mettere pace, grazie a questi modi vellutati e mielosi, nella rissa da saloon scoppiata tra i protagonisti dei vertici precedenti. Nella battaglia giudiziaria di ricorsi e controricorsi davanti al Tar un faro ha finito invece per illuminare lui. Mettendo in luce un dettaglio strepitoso: fatto commissario per il «physique du rôle» da pacificatore, Pierino il fisico non ce l'aveva proprio. Sedici anni prima, quando era ancora poco più che cinquantenne, aveva ottenuto infatti di lasciare la sedia di funzionario della Provincia e di andare a riposo perché non ce la faceva più. Stando alla visita medica, il poveretto lamentava «dispnea (cioè respiro affannoso) a volte anche a riposo, di tanto in tanto edemi (gonfiori) agli arti inferiori, insonnia, sudorazioni, tremori, episodi di tachiaritmia (alterazione del ritmo cardiaco), digestione laboriosa, stipsi (stitichezza) e miopia». Quanto bastava perché la commissione, dando il via libera alla pensione (2.400.000 lire al mese, di allora, da sommare al vitalizio parlamentare), lo riconoscesse «inidoneo permanentemente non solo alle proprie mansioni ma a ogni proficuo lavoro». Sedici anni ed è tornato in forma. Prova provata che la politica non fa male alla salute... Direte: ma ci capiscono, almeno? Talvolta. Come l'ex deputato missino Antonio Parlato, barbuto recordman delle interrogazioni parlamentari ed esperto di diritto della navigazione, piazzato alla presidenza dell'Ipsema, l'ente previdenziale dei marittimi. Oppure, volendo riderci su, come Giuseppe Fortunato, schierato nel 2005 dal governo Berlusconi all'authority per la Privacy. Uomo giusto al posto giusto: qualche anno prima era stato infatti condannato fino in Cassazione per avere violato la privacy di alcuni avversari politici. Consigliere comunale a Napoli nelle file di Alleanza nazionale, era riuscito a procurarsi i tabulati delle telefonate fatte coi cellulari di servizio dagli assessori comunali. E aveva subito convocato i cronisti per svergognare la giunta: «C'è chi telefona ogni notte alle centraliniste erotiche!». Oddio, può anche capitare che qualcuno ammetta candidamente di aver ricevuto una prebenda per motivi squisitamente politici. Lo ha fatto, per esempio, Franco Bassanini. Parlamentare per quasi un trentennio, ministro e sottosegretario nella stagione ulivista, cose che gli garantivano comunque un buon vitalizio, nel 2006 era sfaccendato. Era già ministro la moglie Linda Lanzillotta, come potevano portarlo al governo? Collocato nel consiglio della Cassa Depositi e Prestiti, la banca del Tesoro, sembrò a qualche malizioso il segnale di un rigurgito statalista. Lui abbozzò: «Perché mi hanno nominato? Forse perché non avevo altri incarichi». Viva l'onestà. Ma è merce rara. Vi chiederete: ma non esistono regole precise sulla scelta di questi bramini, destinati a guadagnare spesso stipendi favolosi? Sì e no. Prendiamo l'Antitrust: può annoverare fra i suoi componenti, oltre a professori universitari e alti magistrati, anche «personalità provenienti da settori economici dotate di alta e riconosciuta professionalità». Una formula così generica da aver permesso anche la nomina di Giorgio Guazzaloca, l'ex sindaco di centrodestra di Bologna buon amico dell'ex presidente della Camera Pier Ferdinando Casini. Uomo intelligente, spiritoso, buon organizzatore, autoironico, lettore onnivoro e di gusti non grossolani, era stato catalogato dal grande Sergio Saviane (che lo chiamava «Copaoche», ammazza-oche) come un «macellaio umanista». E sia chiaro: se il «Franchino», cioè il socio della sua macelleria, dice che «non si è mai visto nessuno svelto di coltello come lui perché gli dai un quarto di vacca e in un quarto d'ora ti serve le fettine», è altrettanto vero che il «Guazza» ha alle spalle una lunga esperienza come presidente dei macellai bolognesi e poi presidente dei commercianti e poi presidente dell'Unione regionale delle camere di commercio. Insomma: ci sono in giro un mucchio di dottoroni che non hanno la sua statura. Detto questo, è difficile dare torto a Sabino Cassese che in un articolo sul «Corriere» ha denunciato nella nomina all'authority dell'ex sindaco di Bologna, al di là delle qualità dell'uomo, un esempio da manuale di come queste investiture siano mille miglia lontane da quelle caratteristiche ormai definite solo sulla carta. Soprattutto sui due punti centrali: «Non ha una "alta e riconosciuta professionalità", essendo stato attivo solo quale operatore e solo nel campo del commercio. Non ha "notoria indipendenza", essendosi presentato a elezioni locali in uno dei due schieramenti». Un limite, quest'ultimo, comune a molti. Non era di «notoria indipendenza» Stefano Rodotà, per quattro legislature deputato (indipendente di sinistra) prima del Peci e poi dei Ds quando fu nominato garante della Privacy. Non lo era il socialista ed ex presidente del Consiglio Giuliano Amato quando fu messo all'Antitrust. Non lo era l'ex deputato comunista (indipendente di sinistra) Luigi Spaventa, sfidante di Silvio Berlusconi alle elezioni del '94 nel collegio Roma uno e ministro del Bilancio con Carlo Azeglio Ciampi, quando fu nominato presidente della Consob, la Commissione nazionale per le società e la Borsa. Non lo era l'ex ministro iperberlusconiano alle Attività produttive Antonio Marzano, che aveva accarezzato addirittura la speranzella di trasferirsi dal governo alla presidenza dell'Antitrust («massi, esageriamo» direbbe Totò) prima di accontentarsi del lussuoso stipendio di presidente del Cnel, il Consiglio nazionale dell'economia e del lavoro. A farla corta: la fragile diga eretta a difesa delle authority, la cui imparzialità dovrebbe essere il primissimo dei punti fermi, si è a mano a mano sgretolata fino a crollare in una nuvola di polvere. Ed ecco ammucchiarsi alla Privacy l'ex deputato verde Mauro Paissan e l'ex deputato di An Gaetano Rasi e l'ex governatore azzurro calabrese Giuseppe Chiaravalloti. E poi all'autorità delle Comunicazioni delegata al sistema televisivo, dove la «notoria indipendenza» sarebbe indispensabile in un Paese come il nostro, l'ex sottosegretario forzista alle Comunicazioni Giancarlo Innocenzi, già a capo dei servizi giornalistici delle reti berlusconiane e poi l'ex senatore della Margherita Michele Lauria e l'ex sottosegretario casiniano Gianluigi Magri e gli ex parlamentati aennini Stefano Morselli ed Enzo Savarese e l'ex senatore dell'Udeur Roberto Napoli. Per non dire dell'ex deputato casiniano Alfredo Meocci, che dopo aver passato otto anni all'authority fu imposto, nonostante la plateale incompatibilità (che sarebbe poi stata sanzionata da una sentenza che annullò tutto e costrinse il nostro a restituire i soldi) alla direzione generale della Rai. «Imparziali», loro? Delegati a rispettare l'articolo 1 della legge istitutiva, dove si spiega che l'authority «opera in piena autonomia e con indipendenza di giudizio»? Loro? Ma dai... «Spirito di servizio» ovvio. Tutti mossi da «spirito di servizio», sono. E una vita, per esempio, che Silvestre detto Silvio Liotta accetta di essere strapagato con soldi pubblici per «spirito di servizio». Prima come segretario generale dell'Ars, ruolo che per status, stipendio e prebende ha precedenti storici solo nella carica di gran visir di Solimano il Magnifico. Poi deputato forzista nella prima stagione berlusconiana. Poi emigrato tra i diniani in soccorso del centrosinistra. Poi pugnalatore di Romano Prodi (fu suo il voto decisivo) il giorno della caduta nel '98. Poi di nuovo parlamentare della destra e ricandidato da Pierferdy Casini nel collegio blindato di Partinico per un'ultima anonima legislatura. Poteva uno come lui restare senza uno straccio di poltrona ad appena 70 anni suonati e con due sole pensioni sia pure faraoniche? No. E così, poche settimane prima delle Politiche del 2006, il Tesoro lo nominò nel consiglio di amministrazione dell'«Acquirente unico», una delle società pubbliche create per sostenere la liberalizzazione del mercato elettrico: forza, Silvestre, un altro sforzo al servizio della collettività. E le Poste? Avendo un solo azionista, lo Stato, potrebbero avere un consiglio di amministrazione, giusto perché non decida un uomo solo, ridotto all'osso. Tanto è vero che Tommaso Padoa-Schioppa, appena ha messo mano a un paio di società pubbliche, Sviluppo Italia e la Sogin (Società gestione impianti nucleari) ha ridotto i membri dei CdA a 3. Bene, alle Poste sono 11. C'erano infatti da sistemare un po' di trombati e amici vari: l'ex parlamentare diessino Salvatore Biasco, l'ex deputato leghista Mauro Michielon, l'ex assessore socialista della Provincia di Trapani Francesco Pizzo, l'ex sindaco forzista di Monza Roberto Colombo... Potremmo andare avanti per pagine e pagine. Ma a far la lista di tutti i trombati, tutti gli ex collaboratori in disuso e tutti i feudatari elettorali consolati con una poltrona pubblica non si finirebbe più. Come non finirebbe più l'elenco dei soldi che vengono distribuiti, dai 51.600 a Franco Bonferroni ai 371.099 dati a Giorgio Guazzaloca. Lasciamo stare, la sintesi è già chiara: la Casta politica, una volta che sei dentro, ti permette quasi sempre di campare tutta la vita. Un po' in Parlamento, un po' nei consigli di amministrazione, un po' ai vertici delle municipalizzate, un po' nelle segreterie. Basta avere un po' di elasticità. Come quella di Mario Rigo, via via sindaco rosso di Venezia, senatore ed eurodeputato socialista, deputato della Lega autonoma veneta, senatore ulivista fino all'ultimo giorno della legislatura sinistrorsa e da quello successivo capo di gabinetto del presidente del Senato destrorso Marcello Pera. Per fermarsi poi quasi ottantenne a Palazzo Madama come collaboratore di uno dei questori. Fedele sempre a se stesso e devoto, sia pure venezianamente, al vero atto costitutivo di un certo mondo politico: l'antica ammuina dei marinai del Regno delle Due Sicilie. Che alle visite a bordo di Franceschiello avevano la seguente disposizione: «Al comando di: "Facite ammuina", tutti chilli che stann'a prora vann'a poppa e chilli che stann'a poppa vann'a prora; chilli che stann'a dritta vann'a sinistra e chilli che stann'a sinistra vann'a dritta; tutti chilli che stann'abbascio vann'ncoppa e chilli che stann'ncoppa vann'abbascio passami' tutti p'o stesso pertuso; chi nun tiene nient'a ffa, s'aremeni a 'cca e a 'lla».

S.Rizzo -G.A.Stella (La Casta - Rizzoli)

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